Zagoria, la terra dai ponti di pietra

“State attenti quando attraversate il ponte, se sentite il suono di una campanella appigliatevi al corrimano oppure state chini; le raffiche di vento provenienti dalla gola dell’Aoos possono essere terribili!”. Qui, sotto l’arcata del più grande ponte di pietra della Grecia, con le acque cristalline del fiume che scivolano sui ciottoli bianchi del fondo, tra il verde dei platani centenari che costeggiano le sponde, il cielo azzurro e terso e l’aria ferma e calda di un pomeriggio di giugno, un avvertimento simile può sembrare esagerato, ma le montagne dell’Epiro possono mostrare molte facce e un paesaggio così bucolico in estate si può trasformare in un inferno di neve, ghiaccio e vento se è vero che anni fa un pastore con le sue capre fu sbalzato dal ponte da una raffica di vento. Queste stesse montagne furono anche la tomba nei nostri alpini, mandati allo sbaraglio e a morire congelati con improvvisazione e scarpe di cartone da chi voleva “spezzare le reni alla Grecia”, come si legge sulle pagine di Rigoni Stern nel suo “Quota Albania”, e il Ponte di Perati, che riecheggia nei melanconici cori alpini, era un ponte di pietra come questo. Risalendo le sponde dell’Aoos, sembra incredibile che in Grecia ci possa essere tanta acqua, abituati come siamo all’immagine legata alle sue isole assolate e riarse. Il fiume scorre ripido e spumeggiante tra grandi sassi e pozze limpide ed è il paradiso di chi ama le emozioni del rafting, ma anche a piedi, arrivando al Monastero di Stomio, appollaiato su uno sperone di roccia che si affaccia sulla parte più profonda e inaccessibile delle gole e circondato da fitti boschi di abeti, si respira una sensazione forte; non sembra di essere in Europa, ma in una valle dell’Himalaya presso un monastero tibetano.
Da questo luogo partono due sentieri che attraversano uno dei massicci montuosi più spettacolari e incontaminati della Grecia che, formato dalla catena del Timfi e dalla mole massiccia dell’Astraka, con le sue vette che sfiorano i 2500 metri, costituiscono la regione montuosa della Zagoria. Sono sentieri poco segnati, e ancor meno percorsi, che s’inerpicano tra le fitte foreste di pini e abeti del versante nord che ospitano orsi, lupi e anche il più sfuggente felino europeo; la lince.

La dura salita che attraversa tutte le fasce climatiche possibili ci porta alla fine sugli ampi pascoli dell’altipiano calcareo che si sviluppa attorno al monte Astraka e qui, dolci pendii solcati da ruscelli alimentati dai nevai che resistono fino ad agosto, formano laghetti e verdi praterie che sono le zone di pascolo degli ultimi pastori valacchi, eredi di un antica popolazione che aveva nella pastorizia e nella transumanza le sue radici. Il suo dialetto, con molte parole romanze, cioè simili al latino, ha da sempre contribuito alle più audaci congetture sull’origine di questa popolazione. Antichi soldati romani convertitisi alla pastorizia? Una popolazione addestrata sempre dai romani a vigilare su queste zone – nelle vicinanze passava la Via Egnatia che portava a Costantinopoli – e rimasta poi isolata in seguito alle invasioni barbariche? O i più intraprendenti di un gruppo di pastori nomadi che dalla Romania, a forza di spingersi a sud alla ricerca di nuovi pascoli, si è spinto fin qui? Difficile avere una risposta certa nel cuore dei Balcani, crocevia e crogiolo di popoli, come del resto anche per i vicini pastori sarakatsani, che abitano la parte meridionale dello Zagori e che invece hanno usanze e dialetti di origine slava.
Il nostro sentiero prima raggiunge le acque placide del Drakolimni, un piccolo laghetto alpino a più di 2000 metri d’altezza su cui si riflettono le scoscese pendici dell’Arkasa, e poi passa vicino al temibile passo di Karteros, sul fianco del Gamila, la vetta più alta della catena che strapiomba nella vallata dell’Aoos per mille metri con un impressionante parete di pietra. Poi inizia a scendere verso la prima delle grandi gole della Zagoria, il Megas Lakos, o “grande buco”, un profondo vallone che termina nell’altra grande gola di Vikos, menzionata anche sul “Guinness dei primati” come il canyon più profondo del mondo e sicuramente impressionante visto da uno dei suoi balconi panoramici, l’Oxya oppure il Beloi. Ancor più suggestivo è però passarci “dentro”, percorrendolo dal basso, lungo l’impegnativo sentiero che conduce alle risorgive del Voidhomati, che vanta le acque più fredde della Grecia - solo 9 C° - invitanti sì per la sua trasparenza, ma veramente proibitive per un bagno! Strano fiume il Viodhomati che a tratti sparisce sotto terra, in altri rende impercorribili strette gole rocciose, e che solo nelle piene invernali riesce ad occupare il grande alveo che in estate si trasforma in una distesa di sassi calcinati al sole. Ed è per questo motivo che solo in questa regione si contano una ventina di ponti di pietra che scavalcano, arditi, fiumare spesso assolutamente secche. Sembrano ponti antichi, ma la maggior parte risale al XIX secolo, un periodo di grande splendore per questa regione che per vari motivi conosce un grande impulso nei commerci, sia perché le famiglie zagoriane hanno libero movimento nei domini turchi, sia perché la zona è un importante crocevia delle carovane albanesi e montenegrine. Commercio vuol dire comunicazione ed ecco che inizia l’era dei ponti di pietra, costruiti con un arte segretamente tramandata da padre in figlio, sponsorizzati dai villaggi, non sempre quello più vicino, e con dei costi, per l’epoca, enormi. Un esempio: il costo di costruzione del ponte di Plakidas è stato supposto essere di circa 20.000 grosia, una moneta ottomana dell’epoca. Considerando che una pecora valeva 8 grosia e il lavoro giornaliero di un uomo 1 grosia e considerando che oggi una pecora costa circa 300 euro, si può calcolare che il ponte sia costato circa 750.000 euro attuali.
E’ nella zona di Kipi che si concentrano alcuni dei più bei ponti zagoriani, come quello sopra menezionato di Plakidas a tre arcate, o quello di Kokoros, alle fine della prima parte delle gole del Voidhomati, o i due ponti vicini sotto Tsepelovo, uno dei quali portava anche al monastero di Rogovou, tramite un successivo traghetto in barca, per superare una gola intransitabile a piedi.
L’abilità con la quale le maestranze dell’epoca maneggiavano la pietra si può vedere anche nel sentiero, soprannominato la “scala di Vradheto” che scende dall’omonimo paese per collegarsi con il vicino villaggio di Kapesovo. Duecento metri di dislivello su un pendio quasi a picco sono superati con uno dei più bei “kalderimi” selciati della Grecia con sinuose curve e senza mai avere una pendenza troppo forte; un vero piacere per i muli di allora!

Anche i villaggi sono il risultato di questa abilità a lavorare la pietra e, grazie anche ad un attento controllo nei restauri recenti – purtoppo gran parte dei villaggi furono bruciati e distrutti prima dai tedeschi nel 1944 per rappresaglia alle incursioni partigiane e poi durante la guerra civile che sconvolse questa parte della Grecia pochi anni dopo - le case zagoriane sono un esempio di architettura rurale molto bello, con i tetti a lastre, le vie selciate e con all’interno delle abitazioni più importanti la bimsa, una specie di cassaforte in cui conservare i beni più preziosi della famiglia persino a prova di fuoco.
L’ultimo tratto del sentiero ci porta dai villaggi di Micro Papigo e Papigo a un bellissimo ruscello di montagna che ha scavato delle piscine naturali nella pietra e poi verso uno degli ultimi villaggi della zona raggiunti solo recentemente da una strada carrabile: Ano Klidhonia. Ma nell’ultimo tratto di sentiero il bel tempo, che ci aveva accompagnato sempre nei giorni scorsi, inizia a guastarsi e i tuoni di un temporale in arrivo ci costringono ad affrettare i nostri passi. Poco dopo, sul sentiero, un piccolo tabernacolo con un lumino spento sembra proprio aspettare noi e il nostro accendino per un offerta al santo protettore della zona e per più di un ora il temporale ci passa accanto senza bagnarci e ci permette di arrivare asciutti ad una altra cappella più grande dedicata al Profeta Elia. Mentre accendo un'altra lampada ad olio davanti alla muta iconostasi di recente fattura e a stampe che raffigurano il profeta a bordo di un carro fiammeggiante che si libera nel cielo trainato da poderosi cavalli, ecco che arriva lo scroscio d’acqua tanto temuto, accompagnato da un raggio di sole e da un arcobaleno; l’ultimo regalo possibile di questa splendida terra.