La Via Licia, una fantastica escursione

"La vita finisce, la strada no", questo è il motto dei camionisti turchi, ma qui a Ovacic, sotto il cartello metallico giallo e nero che indica la partenza del Likya Yolu, il motto si adatta anche al nostro gruppo di escursionisti. Ci prepariamo infatti, a camminare per metà dei 509 chilometri di questo sentiero, che da molti è considerato tra i più bei trekking del mondo, in una delle zone più ricche di storia del bacino del mediterraneo, e attraverso una natura ancora in gran parte intatta.
Già l'anteprima, il sentiero che dal villaggio fantasma di Kaya Koy arriva alla baia di Olu Deniz, ci regala una summa, ci condensa in due irripetibili esempi di storia e di natura, quello che ci aspetterà nei prossimi giorni, per fortuna non così in abbondanza, per non rischiare una sindrome di Stendhal in terra turca. Il primo, il paese abbandonato di Kaya, è l'esempio più drammatico e impressionante dello scambio di popolazione che ci fu tra Grecia e Turchia alla fine della guerra che divampò sulle sponde dell'Egeo tra gli anni 1920 e 1923. Fu una brutta guerra, se mai ce ne può essere una bella, e al termine del conflitto più di due milioni di abitanti di origine greca, i cui avi risalivano agli intrepidi colonizzatori ionici e dorici, sopravvissuti alla conquista persiana e a quella ottomana, furono infine costretti a lasciare le loro terre per andare in una madrepatria di cui avevano in comune solo la lingua. Anche i turchi presenti in Grecia furono costretti ad andarsene dal suolo ellenico, ma nessuno mai tornò più ad abitare le centinaia di case di Kaya che rimangono, nudi scheletri di vani sventrati, disseminate su di una collina intorno alle sue chiese ortodosse. I nostri passi calpestano il selciato della chiesa dove rimangono ancora le tracce dei choklakia, grandi disegni fatti con ciottoli bianchi e neri, e le pietre della mulattiera che, serpeggiando, si fa strada tra le rovine delle case, ricoperte da erba e arbusti di elicriso e santoreggia. Il sentiero continua in una bella pineta, dove il rumore dei passi risuona ovattato dal soffice strato degli aghi caduti, e nella completa assenza di rumori di civiltà, sembra di avere già fatto un salto indietro nel tempo. Poi gli alberi si aprono e sotto di noi s'intravede uno specchio d'acqua placido, dai contorni verde smeraldo, delimitato su tre lati da una fitta vegetazione e, nel quarto, da una lingua di sabbia bianca che si protende con delicatezza nel tratto di mare che qui prende un colore che va più verso il turchese.

Eccoci a Olu Deniz, il Mar Morto, una delle località più fotografate della costa turca, che ci accoglie, anche se siamo in aprile, con un'acqua non troppo fredda e irresistibile per un primo bagno. Il sentiero poi prosegue per 500 chilometri, ma il nostro viaggio è anche un percorso di 3000 anni, tanto è il tempo che le civiltà hanno lasciato il segno su queste pietre, su queste colline, su questi golfi, che oggi ci appaiono in gran parte disabitati e abbandonati.
Patara è uno di questi luoghi. Semisepolta dalla sabbia, che in qualche punto forma delle bellissime colline alte più di 100 metri, appartenne alla lega delle città della Licia, dette il suo appoggio ad Alessandro Magno, e i romani la dotarono persino di un grandioso arco di trionfo e di un acquedotto che prendeva l'acqua a più di 15 chilometri di distanza e che in gran parte si può ripercorrere a piedi. Ma usciti dai sentieri che collegano i punti principali d'interesse, il teatro e l'acropoli, ecco che ci si può perdere nella zona retrodunale di una grande spiaggia e vagare anche per ore tra boschi di mimose e acquitrini, seguendo le orme delle tartarughe terrestri e di quelle marine.
Gokceoren è un altro di questi posti. Non è segnalato nemmeno sulle carte e solo la curiosità di esplorare una cavità che segna il fianco di una collina che ci fa partire dall'omonimo villaggio, un piccolo insediamento di pastori e contadini, con le case sparse in un'ampia vallata e un vecchissimo platano, gokceoren appunto, accanto ad una moschea bianca. Ci andiamo di notte, alla luce delle torce, per un sentiero da capre aperto da poco nell'intricatissima macchia bassa fatta da querce spinose e stracciabrache. All'improvviso una serie di pietre che sembrano squadrate e messe con proposito in linea retta, ci fanno capire che su questa collina, un tempo…millenni… ere…eoni fa, c'era qualcosa. Sotto una pietra spiovente si trova la prima tomba rupestre, intagliata nella dura roccia calcarea, sembra scalpellata da poco. Assomiglia al disegno di una casa fatta da un bambino: la porta rettangolare e il tetto da cui fuoriescono l'estremità delle travi di legno. L'interno e vuoto, depredato chissà quanto tempo fa, ma pulito, anche da animali e insetti che forse sentono la sacralità del luogo. La cima di una collina vicina è stata livellata, da una parte scalpellando la roccia viva, dall'altra riportando delle grosse pietre, per farne una specie di pedana che poteva fungere da osservatorio. Ci mettiamo distesi ad osservare il cielo nero, solcato dalle gocce di latte cadute ad Era quando cercò di allattare Eracle, a contemplare lo stesso spettacolo che guardavano le sentinelle licie.
Il sentiero continua e passa sotto l'imponente parete che strapiomba di quasi mille metri del Baba Dag, la montagna del padre, che con i suoi 1989 metri, a poca distanza dal mare è incappucciata di neve fino ad aprile. I panorami qui sono infiniti: verso sud è tutto un susseguirsi di cale, istmi, penisole e isolette, come quella di Kastellorizo, per i Greci o di Meis per i Turchi. A pochi chilometri dalle coste turche, a centinaia di miglia dal suolo ellenico, questa isoletta ha una spada di Damocle su di sé; se il numero degli abitanti scenderà sotto le 250 unità, l'isola tornerà ad essere turca. Inutile dire che Atene si preoccupa con tutti i mezzi di favorire la permanenza su quest'isola degli abitanti che, all'inizio del secolo XX, erano ben quindicimila.

A nord invece si estende il cuore della penisola anatomica: vallate e catene di montagne immense, impressione favorita anche dalla buona visibilità, che sono ancora abbondantemente innevate anche a primavera inoltrata. La vita nei villaggi interni non è facile, e mi viene in mente un passo del romanzo "Terra di ferro, cielo di rame" di Yashar Kemal, dove si racconta che nei giorni di tempesta invernali gli abitanti avevano paura che le loro case cascassero giù, da tanto erano violente. Ma questo, d'inverno, non succedeva mai, perché le abitazioni gelavano completamente. Era in primavera il vero pericolo, perché i muri di terra si potevano sciogliere come la neve al sole.
Quando arriviamo nel golfo di Ucagiz, perdiamo il senso dell'orientamento tra i bracci di mare che s'insinuano in lunghi fiordi tra isole lunghe e strette. Qui il mezzo migliore per esplorare le calette che sotto pochi metri d'acqua celano i resti d'antiche città è il kayak oppure una piccola barca. Era qui che gli antichi pirati lici, che rapirono anche Cesare, avevano una delle loro basi e non sorprende più di tanto sapere che ci sono anche i resti di una fortezza genovese.
Quanta gente, quanti conquistatori che poi sono stati conquistati sono passati da queste parti. Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, fino a che Ataturk non prese saldamente le redini della Turchia, questa zona era addirittura sotto l'influenza italiana, una specie di protettorato, che dette il via, da buon erede di Roma, alla costruzione di strade e ponti.
Tutto questo va e vieni non ha impedito però al popolo turco di essere insuperabile nella misafirperverlik, l'ospitalità. Anche nei villaggi più sperduti si fanno in quattro per poterti accogliere semplicemente, ma con sincerità e anche dei pastori sperduti sono pronti a condividere un piatto di ciorba, un po' di olive, il pane sottile e grande come un pneumatico di auto, o lo yogurt appena fatto. Un sorriso non manca mai e sono i primi a dirti Merhaba, salve, e spesso ti accompagnano lungo il sentiero, per essere sicuri che non ci sbagliamo.
Sotto le pendici del Baba Dag, abbiamo fatto qualche chilometro insieme a un "tamburino", sì proprio una di quelle persone che suonano il tamburo, un piccolo tamburo da banda di paese, che stava tornando al suo villaggio. Con i suoi mocassini di simil-pelle in plastica, sformati e logori, una giacchetta e dei pantaloni sdruciti, ci guidò lungo il sentiero con passo veloce, spesso aspettandoci pazientemente, noi, con i nostri scarponi da montagna e i nostri vestiti tecnologici.


La Lycian Way è l'unico sentiero di lunga percorrenza segnalato, almeno per ora, in Turchia. L'idea di attraversare questo territorio incredibile è venuta all'inglese Kate Clow che in anni di permanenza in questa zona, facendosi spesso accompagnare dai pastori, ha collegato una serie di sentieri che da Fethiye arrivano fin quasi ad Antalya. Sono 509 chilometri, percorribili in circa un mese di tempo.
Il Sunday Times lo ha definito uno dei 10 trekking più belli del mondo e, a mio avviso, non a torto. Lungo il percorso ci si appoggia a piccole pensioni o alberghi nelle cittadine più turistiche, ma spesso c'è da bivaccare o da cercare ospitalità in qualche villaggio dell'interno. La seconda parte, quella vicino al Tahtali Dag, alto 2366 metri, è ancora più dura e selvaggia e percorribile sono in primavera inoltrata.